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I RACCONTI DEI "GREGGI"

12-12-2020 06:30 - News Generiche
Iniziamo a pubblicare, da oggi I RACCONTI DEI GREGGI o meglio I RACCONTI DEL BARRE.
Si tratta di aneddoti di vita realmente vissuta e raccontata con lo stile dei Greggi.
Il miglior racconto verrà premiato con una bella felpa dei Greggi alla Rete.
Il nostro sito, da sempre vicino ai Greggi, è stato autorizzato a farlo; ci è stato inviato il primo racconto per email.
Questo prima esposizione dei fatti, ce la narra Marco Fantozzi ed il titolo è: ALTRIMENTI CI ARRABBIAMO.


Erano gli anni 70. La metà era passata sicuramente, anche se l'anno preciso non lo ricordo. Forse il 1977, forse il 1978.
Ma questo è sicuramente un dettaglio poco importante. Anche la categoria in cui giocava allora la Cuoiopelli non è un particolare significativo (Prima Categoria? Promozione?).
Era sicuramente la Cuoio dei Coscetti, dei Meloni, dei Capino. Ma soprattutto era la Cuoio per cui una comunità intera ci sentiva, si incazzava, smoccolava. Ma soprattutto partecipava.
Il teatro di questo racconto era già il cosiddetto Campo Novo, quello che ora si chiama ufficialmente “Libero Masini” ma che – nei fatti – viene chiamato ancora Campo Novo (ahahah, dopo 50 anni!!!).
In quegli anni il Campo Novo non aveva la fisionomia attuale: esisteva il corpo centrale della tribuna (la tribuna coperta) e poi il pubblico – fondamentalmente gli ospiti – si accomodava in piedi dove ora c'è la tribuna in tubi innocenti. Il settore si chiamava “Prato” proprio perché non c'era niente, era appunto un prato e il pubblico assisteva alla partita in piedi e, quando stanco, si appoggiava alla rete.
Ad onor del vero, il settore era frequentato non solo dai tifosi ospiti ma anche da quelli che sono stati gli antenati (alcuni ancora viventi) dei cosiddetti “Greggi alla rete”. Ovviamente per accedere al Prato, il biglietto era più economico rispetto a quello di tribuna: non solo c'era da stare in piedi ma anche da beccarsi acqua, vento o sole cocente a seconda delle circostanze. Quindi chi andava a vedere la partita in Prato o era greggio perché non aveva i soldi, oppure li aveva ma non voleva spendere, quindi era greggio moralmente. Insomma, a prescindere dai motivi, sempre greggio era.
E quindi “greggi alla rete” era l'epiteto che si beccava chi non era in tribuna.
Chiusa questa doverosa parentesi (doverosa in quanto questo scritto magari lo legge qualche forestiero ed allora deve sapere cosa vogliono dire queste parole che sente tutt'oggi e che magari gli suonano incomprensibili e senza senso), veniamo all'oggetto di questa storia.
La domenica si sarebbe giocato un Cuoiopelli-Pescia, gara valevole per il girone di ritorno.
Si narrava che all'andata i pesciatini non avessero accolto i tifosi biancorossi con mazzi di fiori – come verrebbe naturale pensare – ma a male e dure parole. Addirittura sembra siano volate delle manate, forse anche dei cazzotti e qualcuno fosse stato costretto a saltare il finale di partita andandosene ad una andatura decisamente più rapida di un normale passo da deflusso.
Anche qui i dettagli non sono importanti. Quello che conta è che il clima della settimana antecedente la partita era stato piuttosto caldo, paventando e progettando pani per focacce. Non fu così una gran sorpresa che, il giorno dell'incontro, arrivasse allo stadio anche una persona che del calcio normalmente non si interessava molto (anzi, a dirla tutta gl'importava una sega) ma che invece era fortemente attratto da situazioni che oggi si potrebbero chiamare politicamente scorrette. Si chiamava (si chiama, tiè!!!) Leopoldo Falaschi, detto anche il Conte Falo.
Descrivere fisicamente il Conte Falo a chi non lo ha mai visto ne conosciuto è abbastanza semplice: basta rammentargli Bud Spencer ed un'idea approssimata ce l'ha già. Non così alto, anzi di statura medio-bassa, ma ugualmente corpulento.
Più che corpulento, direi massiccio e con una folta barba questa sì praticamente identica al protagonista di “Altrimenti ci arrabbiamo” ed altri film che hanno segnato la nostra adolescenza. Una presenza, sempre per usare un linguaggio attuale, non solo scenografica ma accompagnata da una forza fisica pari all'impressione che la sua visione suscitava di primo acchito. Invece descrivere il Conte Falo come persona è parecchio più complicato, ma questo racconto serve appunto ad introdurre il complesso tema e sarà di grande aiuto.
Il nostro si presenta al campo pochissimi minuti prima del fischio di inizio e si accomoda in tribuna (mica avrete pensato anche solo per un momento che fosse andato in Prato?), tribuna che era ovviamente gremita. E quando dico gremita vuol dire veramente gremita: si sarebbe potuta tirare in aria una manciata di riso e credo che solo due o tre chicchi avrebbero raggiunto terra.
Era vestito come per andare a un matrimonio: elegantissimo, giacca a doppio petto e cravatta con nodo di dimensioni adeguate ai tempi.
Si avvicina a Giancarlo Giammugnani detto il Barbierino e gli chiede di fargli posto, richiesta che ovviamente era impensabile aggirare.
Il Barbierino e chi gli sedeva accanto fecero il possibile ma, visto il numero dei presenti, non riuscirono che ad aprire una breccia di 20/30 cm di spazio. Per il Conte Falo fu sufficiente: ci si gettò a peso morto e, tempo qualche secondo, il suo culo toccò il gradone di cemento della tribuna. Non ci sono riscontri verificabili in merito ne testimonianze dirette, ma è probabile che i due spettatori seduti agli estremi di quel gradone siano cascati di sotto dalla tribuna. Sempre che le leggi della fisica abbiano una loro ragion d'essere.
I giocatori erano già usciti dagli spogliatoi e si apprestavano ad entrare in campo.
I numerosi tifosi pesciatini erano ovviamente in prevalenza in prato, ma un buon numero era anche in tribuna in quanto anche loro seguivano la propria squadra con passione e in gran numero. L'arbitro stava ordinando ai giocatori di schierarsi a centrocampo, quando il Conte Falo si alza e chiede a gran voce a tutti i presenti di fare silenzio. Un po' per la personalità del richiedente, un po' per la curiosità per questa insolita e inattesa iniziativa, incredibilmente in pochi secondi calò il silenzio.
Il Falaschi si era seduto al centro della tribuna e precisamente su uno dei gradoni più in basso: quindi, girandosi, si rivolgeva visivamente a tutto il pubblico presente in tribuna.
Le parole del discorso che fece non le ricordo ma d'altra parte non c'è bisogno di fissarle in un testo per tramandarle ai posteri.
Il succo fu questo: “Io non sono esattamente un tifoso della Cuoiopelli, ma molti amici mi hanno raccontato che a Pescia ci avete trattato male. Questo non va bene, anzi va molto male. Mi hanno anche detto che ci avete fatto stare zitti. Quindi oggi state zitti voi. Non voglio sentire la voce di quelli di Pescia. Sono stato chiaro?”
.
Si sedette di nuovo, sommerso dall'applauso di tutti i santacrocesi e dai più disparati commenti che credo non sia difficile immaginare.
Scemato l'applauso e placate le grida, con l'arbitro che fischia l'inizio della partita, scende di nuovo un quasi silenzio.
E in questo quasi silenzio, un pesciatino di mezza età situato a centro tribuna ma in alto, in piedi, ebbe una malaugurata idea: mise le mani a circondare la bocca a mo' di altoparlante e – con tutta la voce che aveva gridò: “Forza Peeesciiiaaaaaa”.
E qui si entra nel film. Perché per descrivere quello che successe, lo posso fare tranquillamente con le parole che però non sono sufficienti a descrivere le espressioni e le sensazioni. Avete presente Bud Spencer quando sta mangiando la sua teglia di fagioli al bancone del saloon con il mestolo di legno e deve interrompere questa goduria perchè Terence Hill ha scatenato una rissa e lui deve intervenire?
Ecco, esattamente fu questa l'espressione che si materializzò sul viso del Falaschi. Non rabbia, non incazzatura, non furore.
Fastidio, solo fastidio. Si alza e lentamente, molto lentamente, comincia a sbottonarsi la giacca a doppio petto. La piega accuratamente e la consegna al Barbierino. Poi è il turno della cravatta. Gli occhi della gente sono ovviamente tutti su di lui. Già la partita non esiste più. Depositata anche la cravatta con amorevole cura alle attenzioni del Barbierino, slaccia i bottoni dei polsini della camicia e arrotola le maniche. Solo allora fa cenno di fare spazio perchè deve salire i gradoni della tribuna.
E mentre le persone appiccicate l'una all'altra miracolosamente si aprono come le acque del Mar Rosso a Mosè, inizia il coro ritmato di tutto – e sottolineo tutto – il pubblico presente: “Fa-la-schi, Fa-la-schi”.
L'urlatore solitario pesciatino non aveva ancora realizzato bene cosa stava succedendo. Aveva solo visto uno grosso e con la barba – che non sapeva chi fosse – alzarsi e fare un discorso a bischero. E tutti avevano riso. Dopo il suo urlo, non era successo niente di immediato.
Tra alzarsi e spogliarsi il Falaschi aveva impiegato due o tre minuti, avendo eseguito queste operazioni con tutta la dovizia e la calma del mondo. E poi non si immaginava che quello spogliarello lo avrebbe riguardato personalmente.
Ma vedere che quella massa compatta davanti a lui, che stava in cima alla tribuna in piedi, si stava aprendo sfidando la legge di incompenetrabilità dei corpi e che quell'omaccione imponente e peloso si stava dirigendo precisamente verso di lui, lo portò ad intuire che tutto quanto accaduto fino a quel momento non fosse solo qualcosa per ridere.
Probabilmente agli ultimi tre gradoni che il Falaschi doveva ancora salire, gli si materializzò definitivamente la presa di coscienza di una situazione di pericolo reale visto che cominciò, allungando le braccia in avanti, a smozzicare qualche frase tipo “….no, no, ma io scherzavo…facevo per dire…” e cose del genere. Ma ormai era tardi.
Il Falaschi lo afferrò per il collo, e con un solo braccio, lo sollevò da terra. Non cadde, perché c'era il muro della tribuna, e lì il Falaschi lo appoggiò: gli urlò in faccia, ad un centimetro, cose varie del tipo: “Ho detto che dovete stare zitti, non mi fate incazzare, pezzi di merda. Non voglio sentir volare una mosca…”.
Saranno passati 15/20 secondi, dico per noi presenti: per il malcapitato non ho idea che percezione di tempo abbia avuto.
Infatti, per tutta la durata della sfuriata, il poverino era stato sospeso da terra, agganciato dalla tenaglia di una sola mano del Falaschi.
Era ormai quasi cianotico quando il Falaschi lo lasciò chiedendogli retoricamente se avesse finalmente capito. Retoricamente perché il pesciatino non poté rispondergli, visto che il suo principale problema era quello di ricominciare a respirare.
Nessuno degli altri pesciatini in tribuna intervenne, segno evidente che cominciavano a capire che il sermone iniziale del Falaschi non era solo folklore. Il Conte Falo tornò al suo posto: per lui una standing ovation che Vasco se la sogna!!
Si rivestì con la stessa dovizia e con la stessa calma con cui si era preparato alla salita dei gradoni, si sedette e tutti – dopo qualche minuto – rivolgemmo la nostra attenzione alla partita.
Bene, facciamo una piccola pausa di riflessione. E' chiaro che quanto fin qui raccontato basta e avanza per entrare nella mitologia di paese.
E' anche chiaro che – ad occhi contemporanei – questa è una scena di violenza e sopraffazione inauditi, inconcepibile ai giorni nostri.
E lo è soprattutto non tanto per il fatto in se, quanto perché osannata da tutti: insomma, una perfetta scena di una comunità di selvaggi .
Ci sarà anche chi dirà: sì, bella storiellina, interessante per i discorsi da bar di paese ma niente più. Ed è qui che sbagliano: perché il bello di questo raccontino ancora deve venire.
Visto che ho usato il cinema sia per descrivere il Conte Falo accostandolo a Bud Spencer che per descrivere qualche situazione, continuiamo ad usare il cinema. Stavolta comico. Quante battute ricordate di film e attori famosi? Sicuramente tante, da Sordi a Verdone a Troisi a Benigni e chi più ne ha più ne metta. Ma non credo di bestemmiare se dico che quanto successo dopo sarebbe piaciuto tantissimo a Mario Monicelli, l'autore e registra di “Amici Miei”. In una scena di questo film cult, Monicelli fa dire ad una voce di sottofondo: “Cos'è il genio? E' fantasia, intuizione, decisione e velocità d'esecuzione”.
Dopo quanto successo, il pubblico seguì la partita con grida, urli, incitamenti e moccoli tipici di un campo sportivo. Grida, urli, incitamenti e moccoli solo di parte santacrocese però!
I pesciatini presenti in tribuna non profferirono parola, come loro gentilmente richiesto dal Falaschi. A dire il vero, ma forse la memoria ingigantisce le cose, mi pare che neanche parlassero sottovoce tra di loro. Finisce il primo tempo e, come normale, tutti si alzano.
Il Falaschi anche e scambia qualche parola con i vicini di posto. Poi si gira con lo sguardo verso la parte di tribuna dove c'erano più tifosi pesciatini, li osserva pochi secondi in silenzio e poi gli dice: “Fumà potete!”.
Allora dimmi Monicelli, ci sarebbe potuta stare questa battuta in “Amici Miei”? E' genio o no?


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