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DA PEIRO' A PRATI, ADDIO AL CALCIO CHE ERA GIOIA (di Leo Turrini)

26-06-2020 06:05 - News Generiche
Con Simoni, Corso e Anastasi interpetrarono un'epoca così diversa da oggi: in pochi mesi abbiamo perso cinque miti di più generazioni.
Chiedi chi erano i Beatles, cantava una vita fa il mio amico Gaetano Curreri, il poeta degli Stadio, gloriosa band musicale.
E in questo crudele 2020, fra lutti assortiti e disperazioni varie, se ne stanno andando i Beatles del pallone.
Eroi atipici della pedata, arrivati al traguardo per lasciare in chi li ha conosciuti il gusto agrodolce della nostalgia che si tinge di rimpianto.
Chiedi chi erano i Beatles, anche in area di rigore. Era gennaio e non sapevamo del virus, quando ci vennero a dire che Pietro Anastasi aveva salutato la compagnia.
Petruzzu! Un siciliano scuro scuro alla corte juventina degli Agnelli.
Un proletario del Sud capace di entusiasmare con le sue piroette, l'Avvocato d'Italia. In apparenza un estraneo, come taluni incompetenti considerarono George Harrison nel Fab Four di Liverpool.
Si narrò, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, che la Fiat avesse investito su Anastasi perché un idolo meridionale placava le sofferenze sociali dei migranti convogliati a frotte nelle catene di montaggio di Mirafiori.
Forse era vero, di sicuro non desidero saperlo, il cinismo dei potenti meriti la nostra indifferenza.
Anastasi era un Beatles del pallone, aveva un estro naturale che era figlio della sua miseria atavica. Un grande, fidatevi di chi lo ha visto giocare.
Poi c'è stato l'addio di Joaquim Peirò. Un Beatles, anche lui. Spagnolo di origini misteriose, una faccia da gitano in trasferta, lampi di genio che dardeggiavano all'improvviso nel vuoto di una partita moscia.
Peirò giocava nella magica Inter di Helenio Herrera ma sembrava uscito dal circo del mago Houdini.
Era fatto di gomma, era sghembo, talvolta inventava gol assurdi come Ringo Starr, il batterista dei Beatles, solista in “Yellow Submarine”.
E da un sottomarino l'istrione Peirò forse sbucò, quando sottrasse palla al portiere dei Liverpool in una semifinale di Champions e per l'Inter fu la gloria.
A Brian Epstein, il manager del quartetto, l'uomo che sapeva governare gli istinti degli artisti, può essere accostato Gigi Simoni.
Un grande allenatore, uno che riusciva a farsi rispettare dai campioni senza alzare la voce.
Se n'è andato anche lui, in silenzio, nell'anno del nostro rimpianto.
Che dire, poi, di Mariolino Corso, il piede sinistro di Dio, il mancino che il destro manco lo usava per scendere dal letto?
Se John Lennon savese amato il football, si sarebbe ispirato a lui per un pezzo.
Un brano lento, per un struscia struscia da discoteca vecchio stile, ma con una accelerazione improvvisa, un Riff di chitarre venuto dal nulla.
Corso l'interista era un prestigiatore. Palla c'è, palla non c'è: una finta, una smorfia, una punizione tirata a destra, fingendo di guardare a sinistra.
Chi ha avuto la fortuna di ammirare Mariolino dal vivo, ha capito meglio i Platini, i Mardona, i Messi. E non si tratta di una esagerazione.
Infine, si è congedato Pierino Prati. Il Paul Mc Cartney dell'area di rigore, un milanista vero, uno che non stava mai nell'ombra azzurra di Gigi Riva, perchè tanto sapeva che gli assist di Gianni Rivera lo aspettavano.
Anastasi. Pierò. Simoni. Corso. Prati. Chiedi chi erano i nostri Beatles, quando lo stadio era una gioia.

Fonte: Leo Turrini - (QS - Il Giorno - Na Nazione - Il Resto del Carlino)

Nella foto: Corso e Prati escono sorridenti dal campo dopo un derby del campionato di A 1968-69.

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