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NELLA SALA DEL BILIARDO - I RACCONTI DEI GREGGI

07-01-2021 06:34 - News Generiche
Prima di iniziare a raccontare, permettetemi di ringraziare gli amici di “Greggi alla Rete” che mi hanno chiesto di mettere nero su bianco qualcuno degli episodi che hanno caratterizzato una Santa Croce che non esiste più. Perchè, in questo modo, mi toglierò definitivamente un peso della coscienza.
Per anni e anni, infatti, ho definito quella che proverò a descrivere come “la più bella battuta “live” mai sentita in vita mia”. E tuttora lo penso.
E dal momento che i testimoni oculari dell'accaduto erano pochissimi, ho sempre avuto come una specie di angoscia nel pensare che questa perla potesse andare perduta per sempre, senza che molte persone ne abbiano mai avuto sentore.
Quindi, grazie “Greggi”, questa è l'occasione per colmare questa quasi mezzo secolare lacuna.
Sarò sincero. Descrivere questo episodio credo sia superiore alle mie forze narrative.
Perchè la battuta finale in sé non è così memorabile come il prologo possa far pensare. Perchè è un po' volgare.
Perchè – se non si conoscono i presupposti, gli ambienti, le persone, in pratica non è niente, è solo una sconcezza come milioni di altre.
E quindi per provare a raccontarla, dico provare, dovrò fare diversi preamboli che potranno risultare un po' noiosi.
Ma tant'è, siccome tra i tanti pregi di Santa Croce non figura quello di aver dato i natali a un Oscar Wilde – nè ora, nè in passato – vi prego di accontentarvi di quello che passa il convento.
C'è un ulteriore difficoltà. La “vittima” di questa storia credo sia ancora vivente (sinceramente non lo so, spero vivamente di sì) e quindi gli dovrò dare un nome di fantasia, anche se le obbligate note che dovrò inserire lo renderanno facilmente riconoscibile a molti.
Anzi, un cognome di fantasia, perchè in questa storia si usa il cognome. Chiamiamolo Cassetti, va!
Se leggerà queste righe, lo invito a prenderle come un'altra “vittima” di tutt'altra storia, ha recentemente fatto.
Mi riferisco a Tacconi, infilzato da Maradona, che ha pubblicamente ringraziato il “10” per averlo reso soggetto di un'immagine simbolo del calcio, la famosa punizione da dentro l'area di un Napoli-Juventus 1-0.
L'anno è il 1979. Il posto (o location se preferite) è il Bar Greco. Per chi lo conosce, sa che dopo averlo percorso quasi tutto, c'erano due stanze. Una proprio in fondo, andando sempre a diritto. Un'altra alla quale si accedeva tramite uno stretto, buio e corto corridoio.
A quei tempi era la stanza del biliardo (ha avuto anche altri usi, come sala da gioco delle carte).
Scusate la disgressione ma mi viene da sorridere: era una stanza di…che so, massimo 30 metri quadri, ermeticamente chiusa: quando fu usata (anni e anni) come sala carte vi stazionavano dai 25 ai 30 giocatori più il pubblico, ore e ore, giornate intere, nei quali più del 60% dei presenti fumava come turchi. Roba che, in base alle normative attuali, non avrebbero fatto multe: avrebbero dovuto fucilare tutti sul posto, per direttissima e senza processo!!
Ma torniamo a bomba. Allora era la stanza del biliardo. Esso stava ovviamente al centro della stanza e tutt'intorno sedeva chi osservava.
I giocatori di boccine (oggi si dice boccette) giocavano dal lato corto destro del biliardo, destro rispetto al corridoio di entrata.
Era un dopo dopopranzo. No, non è un refuso il doppio dopo.
Voglio dire che per dopo pranzo voglio intendere il tempo, approssimativamente dalle 13 alle 14, nel quale le persone – di ritorno dalle conce – dopo aver mangiato con l'imbuto, si recavano al bar per riempirlo e giocare a briscola, tresette o vinciperdi.
Sembra fantascienza, ma lo giuro: i bar dalle 13 alle 14 strabuzzavano di gente: la partita a carte era un rito irrinunciabile, vitale, direi ancestrale.
E poi veniva quello che io, improvvisando, ho chiamato il dopo dopopranzo: i bar si svuotavano, perchè il richiamo potente dei bottali e degli spruzzi scandiva dittatorialmente il tempo di tutti. Ma non rimanevano deserti: ci trovavi giovincelli, pensionati, perditempo e altra umanità varia. Proprio durante uno di questi dopo dopopranzo arriva il protagonista: Leopoldo Falaschi, detto il Conte Falo. E chi, sennò?
Tra gli infiniti vizi e passioni che aveva, il Conte Falo amava giocare a biliardo. Ed era in effetti un buon giocatore.
Mica un campione, ma sicuramente un buon giocatore di boccine di paese.
Entra al bar, dice un paio di bischerate ai presenti, beve rapidamente il suo caffè ed infila il corridoio che porta alla sala biliardo, corridoio che se fosse stato 5 centimetri più stretto, forse avrebbe impedito alla sua mole di passarci camminando frontalmente.
Non pago delle bischerate dette all'entrata del bar, si sofferma al termine del corridoio, i piedi già all'interno della sala, fa il giro con lo sguardo della stanza e perentoriamente afferma “Oh, che sia chiaro, qui a me, me lo puppate tutti!”.
L'atmosfera nella sala era sonnecchiosa, veramente da pennichella dopo mangiato.
Due persone stavano facendo la loro partita osservati distrattamente ed apaticamente da due o tre pensionati, un paio di giovincelli (uno ero io, ecco perchè sono testimone della storia!) e, chissà, un altro paio di spettatori occasionali. Nessuno fece caso alle parole del Falaschi.
Non passò neanche nell'anticamera del cervello di nessuno che il Falaschi volesse offendere qualcuno. Era semplicemente così, era il Falaschi e basta. Tutto normale.
Tutto normale meno che per il Cassetti, che era seduto subito alla destra finito il corridoio.
Il Falaschi, entrando, si era fermato e, appunto, alla sua destra a 10 centimetri stava seduto il Cassetti.
Chi era (è) il Cassetti? Un santacrocese d'adozione (viveva a Santa Croce già da anni con suo padre col quale lavorava nell'impresa professionale) ma originario della Lombardia. E di questa regione aveva molti degli stereotipi sui quali tutti facciamo leva quando li vogliamo prendere in giro. Puntava molto sul possesso (io ho questo, io faccio quest'altro…), spesso serioso ed ipercritico su tutto e tutti.
Ma soprattutto, proprio in virtù di quanto prima detto, molto permaloso.
Insomma, per farla corta, il quasi perfetto stereotipo dell'industrialotto lombardo decisamente agli antipodi del classico spirito toscano e santacrocese che è scherzare su tutto, anche oltrepassando spesso e volentieri il limite della decenza. Due mondi inconciliabili.
E' ovvio – e direi non potesse essere che così – che il Falaschi al Cassetti stava molto (anzi, di morto) sulle palle.
Cosa fra l'altro ricambiata, non con acredine, ma sicuramente, ricambiata.
Perchè con il Cassetti non potevi scherzare molto: sarebbe sicuramente finita in discussione. E quindi, la gente evitava: quello che a noi piace non è litigare, è prendersi per il culo. Oltre alle sue caratteristiche caratteriali, il Cassetti aveva anche quelle fisiche che non lo aiutavano ad essere molto popolare: non era proprio un Adone ed anche bassino.
Quindi neanche ci potevi litigare fino ad arrivare alle mani, saresti passato per prepotente ed approfittatore.
Figuriamoci un marcantonio come il Falaschi!
Insomma, il Falaschi entra e spara il suo: “Oh, che sia chiaro, qui a me, me lo puppate tutti!” al quale nessuno fa caso e neanche accorgendosi che a 10 centimetri alla sua destra c'era il Cassetti.
Ma, dall'altra parte del biliardo, proprio di fronte al Cassetti ed al Falaschi, era seduto il sottoscritto. E fu così che potetti vedere nitidamente l'espressione di disgusto, incazzatura, giramento di coglioni che si dipinse plasticamente sulla faccia del Cassetti.
Non si era certamente adombrato per quell'innocente “a me, me lo puppate tutti”: era sicuramente la goccia che stava facendo traboccare il vaso. Chissà quante mezze battute, allusioni aveva dovuto ingozzare. Chissà quante situazioni aveva visto dove il Conte Falo gli aveva fatto andare la bile a livelli di guardia! Ora non ne poteva veramente più!
Era l'ora di dirgliene due a quel prepotente, sfacciato, irrispettoso. Che pensava, che perchè era grosso poteva dire e fare tutto quello che cazzo gli passava per quella testa bacata? Tutto questo io potetti leggere nella sua espressione: furono tre secondi, ma era come leggere le parole di un libro!
Mise le mani sui braccioli della sedia come per tirarsi su e iniziare a sputare le sue rimostranze in faccia al Falaschi.
Che se nessuno se la sentiva, l'avrebbe fatto lui!! E che cazzo!! Era l'ora di farla finita!
Ma il Falaschi, con la coda dell'occhio (movimento che io vidi chiaramente) si rese conto che qualcosa stava per succedere.
Non credo lo capì, penso che lo percepì.
E quando il Cassetti aveva già assunto una posizione eretta sulla sedia e aperto la bocca per iniziare a parlare, prontamente disse: “Eccetto tu Cassetti. Chiaramente. Non mi permetterei mai”.
Tutte queste cose son successe in secondi, frazioni di secondo. Senza dire un solo “ah”, il Cassetti – lentamente – riassunse la posizione originaria. Come un gatto che si gonfia pronto alla battaglia, lentamente riacquista la sua postura normale, una volta passata la minaccia.
Ma ora l'espressione del suo volto era chiaramente cambiata. La sua bocca non aveva avuto il tempo di profferire parola, ma i lineamenti del volto parlavano. Esternavano chiaramente soddisfazione, compiacimento.
Non lo disse ma era come lo avesse detto “visto, che questo fa tanto il gradasso ma quando capisce che c'è qualcuno che lo rimette al suo posto allora si calma. O quantomeno con me ha capito che non deve rompere i coglioni”.
Il Falaschi cominciò immediatamente a disturbare i due giocatori. Voleva giocare, e non voleva aspettare.
I due volevano chiaramente almeno finire la partita. Ma il Falo li incalzava.
Nella sala però si era creata un'atmosfera strana, un non detto ma tangibile come un oggetto concreto.
“Ma come – aleggiava nell'aria – il Falaschi si è come prostrato ai piedi del Cassetti? Non gli ha detto nulla? Ma niente di niente?”
Insomma, nella Santa Croce degli anni Settanta, che il Falaschi entrasse al bar e dicesse “Qui a me, me lo puppate tutti” era un evento naturale come il puzzo di concia, qualcosa a cui nessuno faceva caso.
Che si preoccupasse di non urtare il Cassetti (no, dico, il Cassetti!!) era un'anomalia clamorosa.
Come aprire un bottale ed estrarne dei petali di rosa. Oh, ma per impossibile che fosse, era andata proprio così!
Quella era la realtà che i nostri sensi ci mostravano. Non era possibile dubitarne.
Nel frattempo, il Falaschi era riuscito a far smettere ai due giocatori la loro partita. Si organizzava ed iniziava un'altra partita.
E sarebbe stata una partita seria. Si decide chi gioca solo e chi in coppia. Si decide la posta, insomma si fanno un bel po' di cose.
L'effetto entrata del Falaschi era in via di sparizione, ora l'attenzione di tutti era sulla nuova partita che stava iniziando perché la posta era pesante, la sfida eccitante e bisognava che l'ambiente diventasse serio, consono alla nuova situazione.
Il Falaschi gioca da solo, fa l'acchito con l'avversario e lo vince. Quindi sarà lui ad iniziare.
Posiziona con cura il boccino, si assesta bene con il corpo alla sponda del biliardo per assumere la posizione più corretta per la bocciata.
Alza il braccio e punta il boccino. Massima concentrazione. Nella stanza silenzio assolto.
Di colpo il Conte Falo abbassa il braccio. Guarda la palla che ha in mano, poi si gira con la testa verso la sua sinistra, dov'era seduto il Cassetti. Lo fissa un paio di secondi, e poi gli dice: “E capace*, Cassetti, te eri l'unico che me lo voleva puppà davvero”.
(*capace, per i non autoctoni, si può tradurre con forse).
Io ho rischiato di morire d'infarto, da adolescente per le risate, ma lo stesso si può dire degli altri presenti.
Il Cassetti, dopo che il suo viso aveva assunto 4 o 5 sfumature di colore diverso in pochi secondi, fece l'unica cosa che si poteva fare: senza dire una parola, si alzò e andò via. Un cazzotto a tutta forza in piena faccia gli avrebbe fatto meno male di tutta quella gente che si contorceva dalle risate.
Dice: Pieraccioni, Panariello e Verdone sono campioni d'incassi. Per senso di giustizia, ti dovrei nominare mio erede universale.
Grazie, Conte Falo!

da I Racconti dei Greggi


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