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SOTTOMESSO AL COMPUTER E ALLE CHAT, IL RAGIONIER FANTOZZI IN SMART WORKING

06-07-2021 06:04 - News Generiche
A 50 anni dall'uscita del primo libro sul travet che segnò un'epoca, come lavorerebbe il personaggio di Villaggio da casa
Un povero inetto, perdente senza speranza, vittima di mobbing, uomo senza qualità.
L'imbelle dall'impossibile riscatto. In sintesi la maschera tragicomica dell'impiegato: umanissimo nel suo incatenarsi a una scrivania che odia e che lo odia.
Il ragionier Ugo Fantozzi è (è stato?) l'italiano prodotto dall'onda lunga del boom: casa in affitto, utilitaria, vacanza mordi e fuggi al mare, vita fatta di trascurabile infelicità. In azienda e in famiglia, per lui non c'è differenza: è e resta uno schiavo comunque.
Fantozzi è una creatura incontrata per la prima volta giusto mezzo secolo fa. L'invenzione letteraria – diventata poi saga cinematografica – di Paolo Villaggio, ma al tempo stesso un personaggio realmente esistito: era suo collega di mediocrità all'Italsider di Genova.
Cartellino timbrato all'entrata, cartellino timbrato all'uscita. In mezzo tante ore inutili e la caduta di ogni illusione, con l'unico conforto di una magra busta paga a fine mese.
Come se la caverebbe oggi affrontando il telelavoro quel Fantozzi anni ‘70?
Con il cellulare sempre in mano, gli ordini ricevuti via whatsapp, il megadirettore galattico proiettato sullo schermo del computer?
E la moglie oppressiva a mezzo metro, la figlia che studia – forse, chissà – nella stanza accanto, il cane da portare giù, il solito passa dal fornaio già che scendi. Mica detto che il lavoro in azienda sia la peggiore delle condanne.
Almeno lì scambi quattro chiacchiere e c'è la pausa caffè alla macchinetta. Ci sono volti conosciuti: Filini, la signorina Silvani, perfino l'arrivista-carogna Calboni. Persone in carne e ossa, non improbabili nickname.
E' lecito immaginare Fantozzi alle prese con la connessione domestica. Par di vederlo mentre cerca disperatamente di entrare in chat, partecipare alle riunioni in videoconferenza, inseguire la chiave della stanza virtuale.
Probabilmente sarebbe rimasto attaccato al pc 24 ore al giorno, temendo una sanzione disciplinare.
E avrebbe rimandato a data da destinarsi pasti e bisogni corporali. Altro che Charlot in Tempi moderni: una tortura superiore alla visione della Corazzata Kotiomkin.
L'archetipo di Villaggio ha ricalcato un prototipo creato dallo scrittore piemontese Vittorio Bersezio addirittura nel 1863.
Si chiamava Monsù Travet e il suo cognome è rimasto come marchio di fabbrica e simbolo sociale: il sinonimo dell'impiegato statale.
Un regio funzionario per 33 anni nello stesso ufficio. Puntuale, diligente, scrupoloso, remissivo di carattere.
E mai promosso perché la meritocrazia è merce rara in ogni epoca. Medio-borghese Fantozzi, piccolo-borghese lui.
Tutti e due alle prese con il cambiamento. Ignazio Travet ha abitato il passaggio dal Risorgimento alla costruzione dell'unità d'Italia.
Il ragionier Ugo ha annusato l'arrivo di una tecnologia che avrebbe cambiato il suo e il nostro universo mentale.
Una cosa sopra tutte li unisce. Ed è banalmente la ricerca della sicurezza economica attraverso il posto fisso.
I milanesi, gente che è tutto un lavorare, tengono stretta nel cuore la ballata dei Gufi: io vado in banca stipendio fisso così mi piazzo e non se ne parla più. Meglio ancora se diventi dipendente pubblico, una polizza vita, poco ma sicuro.
Modi e pensieri di un'altra Italia? Piaccia o no, il telelavoro e lo smart working indotti dalla pandemia hanno cambiato le carte in tavola, buttando all'aria la scrivania dell'anonimo travet.
Con effetti discutibili: il lavoro da remoto fatica a coniugare in un giusto mix vita professionale e privata.
I sindacati hanno lanciato l'allarme: favorisce disuguaglianze e sfruttamento. Però la ricerca di ForumPa sottolinea che il 94 per cento dei dipendenti pubblici (su un campione di 4.200) preferisce lavorare da casa, con rientri in ufficio solo saltuari. Una vita in vacanza.
Così a incarnare lo spirito confuso del travet nella Terza Repubblica provvede il nostro miglior sociologo: Checco Zalone. Capace in Quo Vado di resistere a qualunque trasloco imposto da una capufficio Torquemada pur di restare aggrappato alla sedia.
Perché con certi chiari di luna, anche timbrare licenze nell'Ufficio provinciale caccia e pesca può apparire un'esistenza da sogno. E un lavoro agilissimo.

Fonte: Massimo Cutò - Quotidiano Nazionale (Il Giorno - La Nazione - Il Resto del Carlino)

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