L' U V E T T A

Se chiudo gli occhi li rivedo ancora quei chicchi, gialli come l'oro, sento l'odore e percepisco il sapore di quelli che di nascosto riuscivo a piluccare in fretta, prima che lo sguardo attento della nonna mi cogliesse sul fatto.

E li rivedo stesi su ceste di vimini, ancora attaccati al raspo, prima di essere messi nel forno, spento ma caldo.

Con il calore avrebbero, infatti, perso gran parte dell'umidità, mantenendo però il gustoso sapore zuccherino.

Nonna, poi, li toglieva e aspettava giornate di sole per completare l'essiccazione. E appena queste arrivavano, stendeva sull'aia le ceste, stando bene attenta che né le mosche, né altri animali si avvicinassero.

Ormai i chicchi si erano raggrinziti “asciugandosi” definitivamente al tiepido sole autunnale ed erano pronti per l'uso.

Conservati in grandi barattoli di vetro, venivano utilizzati nella cottura del baccalà, nella preparazione dei sanguinacci, ma soprattutto per preparare deliziose focacce dolci, che nonna Maria impastava e infornava.

Come era bello il crepitio del fuoco, pieno di luce e di quei piccoli ciocchi, che lentamente si consumavano e diventavano brace.

La stanza era piccola e subito si riscaldava. Rimanevamo silenziosi ad aspettare, mentre improvviso saliva su un profumo dolcissimo di farina cotta, zucchero e uvetta. Le nostre merende.

Poi di corsa rientravamo in casa (il forno era esterno) e aspettavamo pazienti che la schiacciata ci fosse data.

Nella cucina un enorme camino accendeva la sera umida e nebbiosa.

Ci leccavamo le dita, appiccicose di zucchero, senza perdere una briciola, ad occhi chiusi, inspirando a fondo, come a trattenere quel sapore intenso fino all'ultimo secondo.

Ricordo il silenzio, nemmeno i pensieri facevano rumore e la vita era più leggera.